Si avverte un sentore di perfezione, intorno alla creatura più estrema e prestazionale di Ingolstadt. A partire dall’inedito frontale appuntito, poligonale, che sembra tagliato nella materia secondo un approccio strutturale, in cui calandra e prese d’aria diventano direttrici capaci di sfaccettare i volumi. «Comunicare la precisione costruttiva era uno degli obiettivi formali del progetto, al vertice del linguaggio di marca» conferma Andreas Mindt, responsabile del design esterno Audi. «Sappiamo esattamente come instillare questo messaggio fin nel singolo dettaglio. Sull’ultima TT, il cofano in alluminio è innervato da due solchi che raggiungono, nel punto meno profondo, uno spessore di appena 2,5 mm: eccezionalmente ridotto, per un metallo di così difficile lavorazione. Sulla R8 si è compiuto un ulteriore passo in tal senso».

Rispetto all’edizione primigenia del 2007, l’attuale sembra forse più incline a miscelare gli stilemi standard dei Quattro Anelli alle muscolose consistenze da supercar. Nelle fanalerie, profilate con i medesimi tratti delle sorelle di blasone, s’illuminano le stesse grafiche a Led. E le iconiche sideblades, che definivano con aggressività le fiancate della prima generazione, oggi si stemperano in due più discreti pannelli separati «per consentire uno sviluppo continuo della linea di cintura, enfatizzando la lunghezza della vettura e, al contempo, la solidità visiva dei montanti C» spiega Mindt. Ma il tassello basilare dell’architettura R8 resta (orgogliosamente) immutato: «Per noi, performance significa quattro. Di conseguenza, era fondamentale non caricare la massa formale sull’avantreno o sul retrotreno, bensì distribuirla uniformemente fra i due assi, conservando una certa orizzontalità di linee e modellando un padiglione tutto raccolto nel passo: così si evoca a colpo d’occhio la trazione su tutte le ruote, al contrario di quanto accada su altre supersportive. Volevamo suggerire l’aderenza di un geco!».

Se l’esterno si dimostra emozionale, l’abitacolo rivela un picco di innovazione. Perché il layout classicamente raffinato delle proposte di Ingolstadt si fraziona, qui, in una tridimensionalità essenziale e tutta costruita intorno al pilota: le forme avvolgenti interrotte dal segno deciso delle bocchette in carbonio, i comandi del climatizzatore sintetizzati in tre elementi minimal-incisivi e, soprattutto, i controlli dinamici agglomerati sulle razze del volante creano un’espressività inusuale, quasi agonistica.

«Effettivamente, per definire l’ergonomia abbiamo chiesto la consulenza dei nostri piloti di Le Mans» racconta Karl-Heinz Rothfuss, a capo del design degli interni Audi. «Chi siede su quest’auto dispone davanti a sé di tutti gli elementi funzionali alla guida, senza alcuna distrazione cognitiva né fisica. Dalla selezione della rigidità delle sospensioni al lunch control, il centro di gestione delle esigenze dinamiche è interamente concentrato sul volante. E, in parallelo, la strumentazione completamente digitale consente di affinare le modalità di interazione pilota-vettura». Nell’intero processo di design, dunque, il piacere dell’approccio meccanico non ha subito l’impatto edulcorante dell’elettronica. Che progettare senza compromessi, oggi, significhi anche questo?

 

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