L’annuale edizione del Salone del mobile di Milano, vetrina privilegiata del design internazionale dell’arredo, si è chiusa il 15 aprile scorsocontando 200.000 visitatori. Un corsa di una settimana per interpretare gli indizi su come sarà l’abitare del futuro, in un paesaggio che, a volte, sembra delinearsi per minime variazioni e che si può visitare in vari luoghi eletti a celebrare i fasti del “settore”: dal quartiere fieristico – che ospitava anche le mostre collaterali GrandHotelSalone e FTK, Technology for the Kitchen – alla città intera, in showroom, architetture riadattate, cortili, strade e giardini.
Non proprio manifesto, c’è un riemergere dell’ordine e della misura. Molti i nomi e le case presenti, a testimoniare la vitalità della manifestazione. Tra gli altri, Marco Ferreri, Marc Sadler, Jeffrey Barnett, Mario Botta, Hannes Wettstein, Flavio Poli, Claudio Silvestrin, John Pawson, Philippe Starck – presente quest’anno al Salone con ben 10 prodotti -, Karim Rashid, Fernando e Umberto Campana, Sawaya & Moroni, Aldo Cibic, Gaetano Pesce.
Cosa si può cogliere dalla settimana milanese del design – e, in particolare, dall’interessante Satellite dedicato ai giovani designer – rispetto ai cambiamenti nel modo di progettare e produrre gli oggetti domestici del nostro futuro prossimo? Ne emerge probabilmente una tendenza alla sobrietà, sconfinante a volte in una certa uniformità delle proposte, attenta quindi al mercato e agli orientamenti del gusto che predicano nostalgici ritorni “all’intimità” casalinga, ma al contempo capace di far riflettere sui temi della qualità e della durata dei prodotti e, meno spesso del previsto, del modo in cui determinate tecnologie possono influire sul proseguimento della nostra esistenza.
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