Joaquin Garcia è dal marzo scorso il nuovo Head of Design dell’Italdesign. Lo incontriamo nella sede di Moncalieri per ripercorrere i suoi 25 anni di carriera e conoscere la sua visione in un momento di grandi trasformazioni per l’azienda e per il settore della progettazione automobilistica. Spagnolo, 49 anni, dopo la Laurea in Industrial Design all’Università Cardenal Herrera di Valencia, sua città natale, Garcia ha conseguito il Master in Vehicle Design presso il Royal College of Arts di Londra, «un’esperienza che ha completamente cambiato la mia visione del mondo, mi ha aperto la mente, reso inclusivo e curioso di conoscere culture diverse». Il suo primo incarico è al Design Renault, «probabilmente l’azienda con più libertà creativa tra tutte quelle per cui ho lavorato. Erano gli anni d’oro di Patrick Le Quément e altri grandi personaggi. Quando sono arrivato e ho visto la Avantime di produzione ho chiesto se fosse la prossima showcar. Ero molto giovane», racconta sorridendo. Dopo una parentesi nell’industrial design, lavora due anni al centro stile Ford a Colonia: «Lì ho imparato cosa fossero le ricerche di mercato e i clinic test, i feedback dei clienti erano presi con estrema serietà. Un mondo opposto alla Renault dove tutto era possibile, è stato molto illuminante». Segue un’esperienza a Barcellona con Erwin Himmel a Fuore Design, «ero responsabile del team, non disegnavamo solo automobili, purtroppo lo studio ha chiuso presto». Nel 2010 coglie l’opportunità offerta da Jozef Kaban, suo compagno di studi al RCA, per entrare al design Skoda e si trasferisce con la famiglia in Repubblica Ceca, «dove ho imparato tanto dalla cultura locale, molto focalizzata sul prodotto, e sono cresciuto anche come manager, un passaggio cruciale per un creativo. Sotto la guida di Jozef abbiamo dato una svolta al design Skoda, diventato un vero marchio globale». Cinque anni dopo, Alejandro Mesonero lo chiama alla Seat e torna in Spagna: «Erano gli anni intensi in cui è anche nata Cupra come brand, sono diventato head of exterior design di entrambi i marchi. Alejandro è un designer appassionato e molto colto, da lui ho imparato veramente tanto e lavorare sotto la leadership di Luca De Meo è stata un’esperienza fantastica, è un vero visionario. A volte non è facile stargli dietro perché non segue gli schemi convenzionali, ma è riuscito ad instillare nel team la capacità di pensare in grande. Quando è uscito ha lasciato un’azienda completamente diversa».
Tra gli interessi di Joaquin Garcia c’è sempre stata anche la cultura asiatica, «ho avuto l’occasione di collaborare con le strutture del gruppo Volkswagen in Cina, all’epoca accarezzavo l’idea di trasferirmi là». Accetta così l’offerta del costruttore cinese Nio per lavorare dapprima a Monaco e in prospettiva a Shanghai, ma scoppia la pandemia e l’esperienza si conclude abbastanza presto. «Sono felice di essere rientrato al gruppo Volkswagen, che considero tra i più professionali e affidabili», dice tornando al presente. «Per me è un onore lavorare all’Italdesign, respiri la storia, alcuni dei maggiori traguardi nel mondo del car design sono stati raggiunti qui. Sono aperto e attento di carattere e amo sentire i racconti del team che ha lavorato con Giorgetto Giugiaro per comprendere quanta esperienza si sia accumulata in questa azienda negli anni». Ora si guarda al futuro, per una Italdesign che si è profondamente trasformata nella sua essenza di fornitore di servizi. I saloni dell’auto resistono per lo più solo ad Oriente, tanto che, come osserva l’amministratore delegato Antonio Casu, se in passato si attiravano i clienti con showcar dimostrative oggi è molto più efficace ed immediata la realtà virtuale con tecnologie immersive. Il fatturato dell’ingegneria è preponderante e continua a crescere, ma è tempo che anche lo stile riprenda a correre. «Il nostro heritage è enorme, ma il passato può essere soverchiante», prosegue Garcia. «Sappiamo che il design al momento rappresenta una piccola parte rispetto all’ingegneria, il mio obbiettivo è far crescere il business». La strategia di base è la creazione congiunta. «Sono poche le aziende che, come Italdesign, possono gestire un processo progettuale per intero, persino per dare origine a un brand da zero. La prima regola è il rispetto reciproco. Nel creare congiuntamente non c’è imposizione: si apre una discussione, si identificano le opportunità e si organizza un team di lavoro. C’è anche molto ascolto, sappiamo che le esigenze sono cambiate, così come ci siamo evoluti noi fornitori di servizi. Un tempo si offrivano semplicemente soluzioni, ora c’è un cambio di paradigma. Dobbiamo presentarci come partner dell’innovazione».
Per innovare bisogna sperimentare: «Possiamo supportare i nostri clienti nel “fail fast”, un’espressione che magari spaventa ma che mi piace, l’ha usata Pixar Studio per descrivere il suo metodo di lavoro: non aver paura di esplorare nuovi territori quando sei ancora in tempo per cambiare rotta, altrimenti non ci sarà mai vero progresso». Un atteggiamento indispensabile quando la tecnologia corre veloce ma il futuro resta indefinito, come ad esempio nel caso della guida autonoma. «Arriverà di sicuro ma non sappiamo quando. Noi designer dobbiamo disegnare questo futuro mentre verranno definite le norme per stabilire le responsabilità in caso di incidente. La tecnologia resta però il fattore determinante. Nei primi anni Duemila con Erwin Himmel lavoravamo per Panasonic e facemmo una bellissima proposta per un telefono cellulare. Finì nel cestino perché poco prima uscì l’iPhone: Apple aveva vinto. Non per il design, è un bell’oggetto, ma è la tecnologia ad aver fatto la differenza». L’uomo deve rimanere comunque al centro del progetto, rassicura Garcia. «Per molti anni il car design ha spesso ignorato le persone. Abbiamo compiaciuto il nostro ego, quello del presidente o il mercato anziché l’utilizzatore del mezzo. L’approccio “human-centric” deve essere reale e non solo il titolo di una slide in una presentazione. Le case cinesi danno allo “user” un’importanza enorme e questa secondo me è una lezione da apprendere». E poi ci sono l’intelligenza artificiale e il metaverso. «L’AI è uno strumento che cambierà radicalmente i processi in fatto di velocità e risorse necessarie per completare un lavoro. Richiede apprendimento, non tutti possono utilizzarlo senza una formazione adeguata. Abbiamo fatto un test pilota con un cliente che ha avuto successo, ma siamo professionali e come fornitore di servizi dobbiamo garantire da contratto l’originalità del progetto e la proprietà intellettuale. Sarà una sfida anche sotto questo aspetto e il nostro team legale è già al lavoro». Differenti le cose per il metaverso: «Fa leva sulla nostra natura umana, sulla nostra capacità di sognare anche in senso figurato. Può diventare un’estensione della propria esistenza e come padre di due figli mi preoccupo che lo diventi in senso positivo, non mi piacerebbe vederli in futuro vivere una vita irreale. Ma non sono contro la tecnologia, anzi, il metaverso offre ai creativi la possibilità di non preoccuparsi di costi, fattibilità, problematiche di produzione. Di certo è un nuovo mondo tutto da costruire e il design deve far parte di questa grande opportunità».